Ancora Fausto

"Egli era di solida complessione, secco di corpo e magro di viso." E' l'inizio del Don Chisciotte, puo' essere l'inizio di una storia del Fausto Coppi da Castellania: se non fu un triste cavaliere fu, a suo modo, un triste eroe, il melanconico eroe popolare del ciclismo, lo sport piu' vicino al popolo fino agli anni sessanta.

Due ali di folla nel sole, nella pioggia, nella polvere, sui pendii, lungo le strade d'Italia, di Francia, d'Europa; il grido che lo precedeva "Fau-sto' Fau-sto'"; poi, in un fruscio di ruote leggere, il dio delle corse, la bocca aperta, gli occhi spiritati, il naso a fendere l'aria e il moto delle gambe lunghissime, luccicanti di embrocation, gambe da insetto favoloso. Il dio delle corse con la sua umile nascita e la oscura adolescenza.

Per alcuni anni la religione ciclistica di tutta Europa sarà monoteista. In quei grandi anni Fausto Coppi non ha piu' nazionalità: basta che la sua figura leggendaria appaia sulla pista del Vel d'Hiv o all'ingresso del Parc des Princes e passa nella folla francese come una corrente elettrica, essa dimentica i suoi Robic e i suoi Bobet; il suo nome appare sulle case d'Olanda e del Belgio; in Svizzera è di casa; è famoso anche nelle Americhe e in Australia.

Una popolarità immensa e, si direbbe, una popolarità non cercata. Coppi evita l'abbraccio della folla, non si confida, non si apre. Eppure la gente capisce che è un uomo sensibile, dolente, che appartiene alla razza dei semidei lugubri e melanconici alla Manolete, alla razza dei contadini che diventano toreri o ciclisti o pugili famosi ma senza mai riuscire a liberarsi da quel loro peccato originale, dai secoli di miseria e di umiliazione.

Sulla bicicletta Coppi è bellissimo, quasi aristocratico, né subdolo né prepotente, solo sicuro di sé, leggero come un gabbiano. Ma basta che metta piede a terra e torna come gli umili che lo applaudono lungo le strade, le spalle da rachitico, il viso scavato da operaio tubercolotico, le braccia lunghe, segnate dalle vene, il petto sporgente come lo sterno di un uccello. E' un anima fragile, vulnerabile.

Giorgio Bocca

Fausto

Veniva avanti in un modo incredibile, anche per un profano: senza sforzo, con una leggerezza e una violenza che non gli costavano nulla, quasi precipitasse e il suo unico impegno consistesse nel dominare qualche potenza. Le sue ruote, non comprendiamo come, ci sembravano piu' alte e lievi delle altre, ruote fatate, su cui il contadino di ieri era stato rapito. Mentre il corpo rimaneva immobile, quasi rilassato, il volto patito e duro che tutti conosciamo si moveva in qua e in là, con una pena particolare, sorridendo senza sorridere.

A somiglianza del volto di tutti i corridori, era infiammato e cupo, gli occhi splendevano come di lacrime, un sudore copioso, o acqua che si era versata sul capo, gli grondava dal collo e dalla fronte. Come il becco di un rapace sfinito, il suo naso pungeva l'aria, il bianco della polvere. Era forse sfinito ma volava. Era come se avesse altri 100 corridori, dentro, e appena uno era stanco, ne afferrava un altro, lo inchiodava sul sellino.

Cosi', come un dio stordito dalla sua forza, piombato in un mondo che non ama, continuamente abbagliato da immagini e voci lontane (non si rifrangevano nel metallo della bicicletta? Non giocavano a rimpiattino, coi raggi del sole, in mezzo alle nuvole? Non erano là, appese a un albero di limone?), e inseguito da quelle braccia e quegli occhi delusi, l'idolo degli italiani passo'. Visto di spalla, già lontano, sembrava un bambino che pedala la prima volta: aveva una grazia incerta, un po' triste.

Anna Maria Ortese